martedì 26 novembre 2013

Death Note: The Last Name (Kaneko Shūsuke, 2006)


Ieri sera mi sono guardato il secondo dei due film tratti da Death Note, ovvero The Last Name (escludendo per ora il prequel su L diretto da Nakata Hideo). Essendo un tutt'uno col primo sia a livello narrativo che stilistico (entrambi i film sono usciti nel 2006 per la regia di Kaneko Shūsuke, e insieme esauriscono l'intero arco narrativo ricoperto dalla prima parte del manga), non c'è molto altro da dire al riguardo rispetto a ciò che avevo già scritto per il precedente. Siccome però non l'avevo fatto in questo spazio appena inaugurato, mi concedo qualche ripetizione. 
Da conoscitore dell'opera (ho tradotto per Planet Manga sia la serie a fumetti di Ohba/Obata, sia la riuscita versione animata), l'ho trovata nel complesso una riduzione senza infamia né lode, nel senso che da un lato centra l'obiettivo di funzionare come thriller metafisico a sé stante, soprattutto per merito della sceneggiatura di Oishi Tetsuya che evita abilmente gli eccessi verbali del manga tagliando innanzitutto le voci over dei protagonisti con le loro elucubrazioni, e opera inoltre una fusione abbastanza efficace (sorvolando sulle sbavature retoriche) tra il finale di questa parte del manga e quello vero e proprio, inventandosi, forse con l'aiuto degli autori, una soluzione inedita ma congruente alla battaglia tra Light e L. Questo, insieme alla regia pur senza picchi e meramente funzionale di Kaneko, contribuisce a donare un buon ritmo alla trasposizione, scongiurando (se si escludono un paio di passaggi) il pericolo assai probabile che ne risultasse un pasticcio noioso e incomprensibile ai più. D'altro canto, l'inevitabile lavoro di sottrazione fa sì che i due protagonisti risultino giocoforza più opachi, a partire dal personaggio di Light che, complice anche l'interpretazione non troppo convincente di Fujiwara Tatsuya, smarrisce gran parte del suo fascino perverso (ma si perde per strada anche tutto il tragico del suo rapporto col padre, i cui effetti dello stillicidio subìto emergevano dal pennino di Obata con molta più forza di quanto non riesca a esprimere il volto di Kaga Takeshi).
Tuttavia, lo scoglio più grande ad accettarne il risultato deriva dal passaggio solo parzialmente compiuto dalla carta stampata allo schermo, operazione che solitamente ha più probabilità di riuscita qualora venga fatto ricorso al filtro dell'ironia. Ma poiché in Death Note di ironia ce n'è in fondo ben poca, i suoi personaggi, che aderiscono pur sempre a precisi cliché (visuali ed espressivi) del manga per ragazzi, nel cui contesto - e solo in quello - essi risultano plausibili, il risultato finale ha il sapore di una stonatura, come se gli attori in carne e ossa fotografati sullo schermo in location reali, fossero in realtà delle sagome di cartone non meno finte e posticce degli shinigami malamente animati in CG. Da questo punto di vista, scelte più radicali avrebbero certamente giovato al film, anche se avrebbero di sicuro scontentato i fan ai quali questo genere di operazioni è solitamente diretto.

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